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La Montea - Monti Petricelle e La Caccia

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Monti Petricelle e La Caccia…..sospesi tra cielo e mare

Io, Francesco e Giuseppe stiamo scendendo dalla cima del Monte La Caccia percorrendo la ripida e affilata cresta del versante sud. La giornata è splendida, di quelle che solo il tardo autunno sa regalare. Soleggiata, calda, ma con l’aria tersa che rende nitido l’orizzonte e piacevole il cammino. Sotto di noi il mare: piatto, immobile, solo in parte disturbato da poche imbarcazioni che placidamente ne solcano le acque, quasi come l’aratro fà con i campi prima della semina, lasciando un solco netto e ben visibile anche a lunga distanza. A Nord il massiccio del Pollino, ad Est “sua maestà” la Montea, la più alpina di tutte le montagne calabresi, e a Sud la catena costiera, con il monte Cocuzzo sullo sfondo. Le gole dell’Esaro sono coperte da un cappuccio di nebbia dal quale emergono le più basse cime circostanti, rendendo tutto il paesaggio ancora più fiabesco. Siamo estasiati e già fantastichiamo sui prossimi itinerari da percorrere nella zona: i monti Petricelle e Faghitello, l’ennesima ascensione su Montea, il monte Cannitello, con i suoi superbi panorami sui due mari, quando, all’improvviso, perdo l’equilibrio inciampando in uno dei numerosi tronchi secchi che ostacolano la via di cresta e in un attimo mi trovo a scivolare lungo il pendio,  senza apparente possibilità di trovare un appiglio che possa salvarmi dal baratro……

In quei brevi attimi (a me parsi secoli) mi è passata davanti una vita intera e ho cercato con tutte le mie forze di creare quanto più attrito possibile con la montagna, nella speranza di riuscire a rallentare la mia caduta, ma ero assolutamente in mano al destino. Ad un tratto un rumore cupo, un forte tonfo (ancora oggi non so bene contro che cosa ho urtato), l’arrivo su un leggero terrapieno e…..la salvezza: sono fermo. Mi rendo subito conto di essere salvo grazie al mio zaino e, soprattutto, ad una buona dose di fortuna.

Bilancio della giornata: frattura scomposta della mano destra, che ha richiesto un’operazione chirurgica, distorsioni bilaterali a tutte e due le caviglie (poco più di un mese di ingessature), escoriazioni varie, oltre che un grande spavento. Ricordo ancora, in quella stanza dell’Ospedale di Cetraro che mi ha ospitato nei giorni seguenti, le espressioni e le frasi di medici, pazienti e parenti in visita, quando ascoltavano dal mio racconto che le cause di un così grave infortunio erano dovute ad una semplice gita in montagna.

“Ma eri andato a funghi?”……”ti sei perso?”…….Qualche amico addirittura ironizzava sul fatto che io, dovendomi sposare pochi mesi dopo, avessi scelto una via per evitare il grande passo. Nessuno, e ripeto nessuno, riusciva a capire cosa ci potesse essere di così interessante in quei luoghi da trascorrerci una Domenica, giornata tradizionalmente dedicata al riposo e al “dolce far niente” dopo una settimana di lavoro. Ecco, proprio questo è il punto: come si fa a spiegare a un profano cosa significa guardare il mondo dall’alto, contemplare l’infinito, perdersi tra le nuvole, chiudere gli occhi e…..sognare?

Dopo un anno esatto tornai per lasciare una targa in legno alla piccola chiesetta de La Croce, ai piedi della montagna, ma da quel giorno, per me molto importante, non ero più salito sulla cima del Monte La Caccia, pur avendo varie volte percorso itinerari nella zona e asceso tutte le montagne limitrofe. Ma lì no. Come in una sorta di ipnosi, ci passavo vicino, la osservavo, ma mi dirigevo altrove. Evidentemente era destino che dovesse capitare una giornata speciale.

 

Oggi. Metà Settembre, temperature fresche, leggera brezza da nord, quasi 10 anni sono passati da quel fatidico giorno. L’obiettivo è il Monte Petricelle dalla cresta Est, ma siamo molto vicini, chissà…. Da Trifari, frazione di Belvedere Marittimo, il sentiero è ormai molto battuto fino alla chiesetta e lo percorriamo in circa un’ora e mezza. Qui ogni anno, il 22 Giugno, si svolge una grande festa a metà tra il religioso e il pagano, con numerose presenze anche dall’estero. La compagnia è piacevolissima e, tra una chiacchiera e l’altra, continuiamo a mezza costa raggiungendo il Passo della Melara, spartiacque tra le Valli del Corvino e dell’Esaro, e campo base ideale per il nostro itinerario. Sul Petricelle non sono mai stato, ma ho osservato spesso da lontano le strapiombanti pareti del versante Est, su cui troneggiano tre alte torri costeggiate dalla aerea cresta che dovremo risalire. Come mi piace dire, adesso “si accende la luce”, le gambe iniziano ad andare da sole e la presenza del mare azzurrino sotto di noi ci porta quasi in una dimensione sovrannaturale. Il percorso è anche più bello di come lo immaginassi. Ripido, mozzafiato, straordinariamente panoramico. Una caratteristica e piccola guglia rocciosa spicca proprio al centro della cresta. È alta circa due metri, la osservo bene. Sembra un personaggio delle favole o una figura mitologica. Occhi, naso e bocca perfettamente incisi. Subito lo ribattezziamo il Moai del Petricelle. Ogni volta scopro cose nuove nella splendida natura del Pollino, anche dopo centinaia e centinaia di itinerari. È anche un modo per allenare corpo e mente ai cambiamenti, alle novità, che spesso sono il principale ostacolo alla crescita culturale dei popoli.

Via via che si sale, il percorso diventa sempre più ripido, fino al culmine della terza e ultima torre, che prelude al bosco di faggi sommitale. La cima vera e propria è, infatti, quasi totalmente immersa nella vegetazione, salvo un piccolo terrazzino roccioso sul quale ci si può affacciare verso il baratro. Ciò che invece colpisce è la foresta. Solenne, vetusta, puntellata di rocce e inghiottitoi carsici, labirinti naturali nei quali perdersi e lasciar viaggiare la mente. È chiara adesso l’origine del nome Petricelle, luogo di pietre, e quale altro posto più di questo merita appieno tale appellativo? Fino adesso tutto si è svolto secondo la nostra tabella di marcia, siamo saliti come un treno e con un rapido scambio di sguardi la decisione è presa. Si va anche sul Monte La Caccia! L’adrenalina cresce ancora di più. Dieci anni che ci manco, da quel giorno. L’ampia sella boscata che divide le due montagne è di una bellezza indescrivibile. Sopravvivono ciclopiche piante di faggio e rupi di ogni forma e dimensione, ammantate di tappeti verdi di muschio, non a caso la zona è a forte rischio di nebbia anche in giornate altrove serene. Ma oggi no. È una giornata speciale. La mia giornata speciale. Il saliscendi fino alla cresta de La Caccia si fa sentire improvvisamente nelle gambe, ma è giusto così. Non può essere facile il ritorno in quel luogo, me lo devo guadagnare, così da poter essere davvero indimenticabile. In realtà, non ricordavo affatto tutto l’articolato camminamento che giunge sulla vetta, o forse, è la stanchezza a farmelo sembrare interminabile. Dopo l’ennesima anticima, finalmente percorriamo l’ultima erta e ci siamo, quota 1.744 metri, non abbiamo più nulla da salire. Camminiamo da circa 5 ore e possiamo stenderci al sole sul prato per goderci il meritato riposo. Dentro di me, però, so che c’è ancora un’ultima cosa da fare. La discesa dalla cresta Sud, il passaggio dal punto dell’incidente. Dopo la riposante siesta ripartiamo percorrendo a ritroso l’aspro crinale dell’andata, fino a dove si imbocca il sentierino che ci riporterà alla chiesetta. I miei ricordi sono adesso del tutto assenti. È come se visitassi questo luogo per la prima volta, ed è bello, stupendamente attraente. Dalle pareti circostanti emergono Pini loricati che sfidano le leggi della fisica e resistono a picco sugli strapiombi,  i panorami sono superbi e noi ci sentiamo come sospesi tra cielo e mare, stiamo volando, ma non siamo dentro nessun aereo. Ad un tratto, all’improvviso, un flash… ci sono, da qui sono caduto. Guardo in basso, riconosco i luoghi, la scivolata, l’atterraggio, il lento e penoso ritorno sul sentiero. Anche questo demone è scacciato! Davvero non riesco a trovare una terapia migliore della montagna, e della natura in genere, per curare i dolori fisici e psicologici che attanagliano ognuno di noi. In breve siamo di nuovo alla chiesetta. Entro. Chissà se la mia targa c’è ancora? Cerco bene, sposto gli ex voto lasciati dai diversi pellegrini e la trovo! Impolverata, seminascosta, ma è lì! L’emozione è forte e i ricordi adesso si rincorrono alla velocità della luce. Chiamo gli altri. Voglio condividere con loro questo momento e il pensiero inciso nella mia targa di legno. ”Il confine tra la vita e la morte è quell’attimo in cui comprendi il valore di ciò che possiedi”. In fondo è proprio questo il segreto, comprendere….

DOMENICO RIGA

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